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Fantauditel: nemico da abbattere!

06/09/2010

Ho passato delle vacanze a dir poco splendide… tanto relax e tanto tempo per riflettere…
Ma sfortunatamente ogni vacanza porta con sé l’illusione che quel mondo ideale che stiamo vivendo  possa durare per sempre… poi si ritorna alla realtà, e la realtà è fatta di ragazze che scompaiono nel nulla poco dopo aver inviato un sms, di trend negativi e insostenibili… e di cattive abitudini che non vogliono perire.

Ho cercato di essere paziente. Ho tentato di veicolare un messaggio. Ho provato a mostrarvi e dimostrarvi che un mondo fatto di soli numeri è un mondo piatto. Che la realtà ha più facce di un dado e che la differenza tra “verità” e “interpretazione della verità” non è poi così sottile.

A quanto pare ho fallito… almeno dal punto di vista dialettico…

Si, perché la battaglia si può vincere, ma la guerra bisogna saperla vincere. Bisogna essere degli strateghi, bisogna sapersi muovere. Bisogna sapere come colpire.

Adesso lo so… e sono certo che subirete un duro colpo…

Non così… non adesso!

20/07/2010

Qualche giorno fa ho ricevuto l’invito degli studenti del Master in Programmazione e Produzione televisiva http://masterprotv.wordpress.com/2010/07/15/chi-ha-paura-di-fantauditel/ , reiterato pure nello spazio commenti del mio ultimo post https://chancebeale.wordpress.com/2010/06/28/un-piccolo-gioco-per-voi-un-degrado-abnorme-per-la-televisione/#comments. Rispondo pubblicamente a convegno avvenuto a cui naturalmente non ho partecipato e non per presunzione o timore di affrontare punti di vista divergenti. Se non rispetto per la mia persona almeno l’importanza dei temi trattati avrebbe richiesto un invito da parte dell’istituzione che continua a tacere lasciando l’iniziativa in mano agli studenti . Apprezzo il loro spirito propositivo ma ritengo che le questioni sul tavolo debbano essere affrontate non da chi le subisce (gli studenti), ma da chi le promuove (i professori). Il silenzio e l’indifferenza dei fautori di iniziative come quella del FantAuditel dimostra che le
mie considerazioni hanno colto nel vivo suscettibilità profonde. Le non risposte sono le più eloquenti repliche da chi non ha argomenti.

Il caldo di questi giorni rende solo più urgente una fuga verso un altrove che spero più fresco, e meno appesantito dalle ritualità
dell’estate romana. Mi appresto a compiere un viaggio in Brasile per cercare di conciliare due mie grandi passioni: poter rimettere mano a un progetto di ricerca con i miei colleghi sudamericani e concedermi qualche percorso di esplorazione nella foresta. Lontano dai percorsi troppo battuti.

Un arrivederci a settembre!

Un piccolo gioco per voi… un degrado abnorme per la televisione!

28/06/2010

Torno a parlare di Auditel per segnalare allarmanti derive di un sistema che qualcuno si ostina a considerare dotato di “significati” e “significanti”. Accade così che anche le roccaforti dell’alta cultura italiana vengono macchiate da piccoli nei, che pur se impercettibili ci sono.  Auditel e tutto quello che ne segue è stato trasformato in un gioco on line con la pretesa di inserirsi in un percorso formativo. Per un intero anno accademico tutti i giorni sulla piattaforma FantAuditel si scommette sullo share che registreranno i programmi proposti corredati da schede di presentazione e informazioni sulla controprogrammazione.   Non voglio arrogarmi il diritto o la pretesa di sapere qual è il modo giusto di veicolare la cultura, del resto il mio professore di Filosofia del liceo sosteneva che anche copiare è un modo di imparare, il più stupido ma pur sempre un modo di imparare. Forse esistono vari modi per parlare di cultura e qualità, ma giocare ad indovinare una percentuale non può, anzi non deve, essere uno di questi.  Soprattutto quando genera imbarazzanti fenomeni di esibizionismo tra studenti che si inventano una gara nella gara. Visto che non c’è nulla da vincere se non la “soddisfazione” di dimostrarsi più “bravo” (ognuno  si compiace come può), c’è chi si impegna talmente nelle sfide da voler segnalare la propria vittoria attraverso delle penitenze da far scontare ai propri amici. No, caro Marco Bocci che mi segnali con ridanciana arroganza una delle vostre prodezze, non mi faccio due risate di fronte a questo scempio che si perpetra in una delle più prestigiose università italiane.    Non c’è nulla di divertente in questa didattica che si presenta come “innovativa”.  Perché l’oggetto di studio è falso e perché i pubblici non possono essere ridotti ad una percentuale (e lo dico soprattutto all’autrice di “Auditel e la cultura del dato”). Auditel è una convenzione tra l’attuale sistema televisivo e gli investitori pubblicitari e nulla dice sulla reale composizione dei telespettatori. Ancor meno può dare indicazioni utili alla costruzione dei palinsesti che dovrebbero abbandonare definitivamente i tabulati di ascolto e aprirsi ad una televisione finalmente autoriale e attenta a fermare gli eventi straordinari, quelli che cambiano il corso della storia. Lo sapeva fare la tv in bianco e nero che non aveva l’assillo di contare i suoi telespettatori e partecipava ad un mondo sottoposto a trasformazioni epocali. Così è stato nel 1969 quando tre uomini  piantarono una bandiera sul suolo di un nuovo mondo, che da allora sarebbe ugualmente rimasto lontanissimo, ma comunque un po’ più nostro. Quel giorno quei tre uomini sbarcarono sulla Luna e la straordinaria impresa è entrata nell’immaginario collettivo anche di chi non era ancora nato grazie ad una televisione che agiva secondo il flusso della storia.

Pensate se accadesse oggi. I tempi dell’allunaggio sarebbero decisi da una fabbrica di automobili e un rivenditore di materassi. Con quelli del FantAuditel a scommettere sullo share come se si trattasse di una partita di calcio o di uno show di Raffaella Carrà.

Le verità nascoste da Auditel

23/06/2010

Sedersi davanti al televisore è l’attività più comune dell’italiano medio. Oggi si impara prima a camminare, poi a parlare e subito dopo ad usare il telecomando. Un italiano probabilmente cambia canale ancora prima di parlare. Ed è forse questa tendenza a “fare” senza “esporsi”, a perpetuare un meccanismo senza giudicarlo, che permette a strumenti obsoleti di rimanere in auge in un sistema già di per sé eccessivamente contaminato dalla banalità, dalla rozzezza, dall’incapacità di rinnovarsi e, contestualmente, di rinnovare.

In Italia ci sono circa 60 milioni di persone. Amanti delle cose buone, “di gusto”… Eppure in tv è proprio il buon gusto a mancare. E il motivo è molto più semplice di quel che si crede: il buon gusto non vende. E un buon venditore che si rispetti non vende il prodotto “giusto”… “vende”, punto.

Questo venditore della televisione italiana ha un nome noto, che non serve pronunciare perché, sfortunatamente, è già conosciuto alla perfezione. Questo “Innominato televisivo” in realtà nasce come metro delle preferenze del pubblico… e da metro si è ben presto trasformato in termometro… e da termometro a febbre della televisione italiana il passo è stato breve. Una febbre contagiosa, capace di superare i confini televisivi ed insinuarsi all’interno di alcuni percorsi accademici, che si interessano al meccanismo dello share (www.fantauditel.com).

Auditel, il vero morbo della tv del Bel Paese, è uno chef retrogrado che ogni giorno cucina una torta per tutti, ma che a tutti non piace. Un dolce composto di 6 reti “forti”, un bouquet terrestre ed un pizzico di satellite. Gradito sicuramente da 5.163 famiglie, opportunamente selezionate perché quella Torta “piaccia”, in modo da consentire, il giorno dopo alle 10 del mattino, di leggere su un tabulato che quella Torta sia appetibile, per esempio, per tre di quelle famiglie. A questo punto l’operazione è semplice, l’abbiamo imparata tutti in seconda elementare: si prendono quelle tre famiglie, si moltiplicano per 150.000 gruppi “simili”, e il risultato è che circa l’8% della popolazione italiana quel prodotto, così come è stato confezionato, lo adora, magari senza nemmeno averlo assaggiato.

Questo è Auditel. Per molti un campione rappresentativo. Per me una semplice convenzione.

Sulla rappresentatività del campione potrei stare delle ore a discutere. Ma francamente non mi va. Già il fatto che stia puntando il dito contro un colpevole che usa sempre gli stessi alibi per difendersi mi fa sentire come un guerriero che morirà sapendo di avere ragione, ma al quale tale ragione non verrà mai riconosciuta. Certo, che il campione sia rappresentativo non si discute. Il problema è “chi” rappresenta. La popolazione italiana? Davvero?! Volete veramente farmi credere che l’Italia è piena di aspiranti concorrenti del Grande Fratello? Di bionde incapaci di mettere in fila un soggetto un verbo e un complemento? O di geni che preferiscono essere definiti Secchioni piuttosto che contribuire allo sviluppo dei campi della scienza più affascinanti come la fisica e la genetica? No… mi rifiuto di crederlo. Se questo campione è “rappresentativo” ciò che rappresenta è solo l’inserzionista. Colui che è disposto a pagare fior di migliaia di euro per vedere il proprio spot alle 21.20, per il quale si crea un programma ad hoc che porti il suo consumatore ad essere seduto davanti alla tv a quell’ora. Un consumatore che l’Auditel trasforma in spettatore medio e inserisce nel proprio campione definendolo “rappresentativo”.

Oggi l’Auditel è un test. “Prova” i personaggi. “Sperimenta” i palinsesti. “Analizza” la percezione di specifici programmi.

L’Auditel è un test… e noi siamo le cavie.

Ogni tanto qualche “topolino bianco” scappa dal labirinto, e racconta la sua esperienza, come quella donna che qualche mese fa evidenziò in un’intervista rilasciata alla Comaschi per “La Stampa” i meccanismi poco fluidi del sistema. La signora in questione sottolineò come fosse facile “barare”, come bastasse accendere la televisione, inserire il proprio codice e poi uscire per diventare rappresentativi di circa 100.000 donne simili a lei. Beh, forse nessuno se ne ricorda semplicemente perché la notizia è passata in sordina, come tutte le notizie “vere” che si rispettino. Ma d’altra parte questa povera signora aveva fatto parte del campione Auditel solo per qualcosa come 15 anni, che cosa poteva saperne… 

E’ probabile che Auditel rappresenti circa 5.000 “campioni”, dicerto nn esprime la complessità di un pubblico e le sue innumerevoli sfaccettature. Un sistema utilizzato per dettare legge, decidere programmi, per chi mi vorrebbe vendere un’auto, una cucina, una dentiera, etc. E come diceva un Beale più noto: se volete la verità non cercatela in televisione!

Ora tutti sapranno. Come lo share ti fa un palinsesto.

20/06/2010

Le polemiche che han preceduto e seguito la decisione della Commissione di vigilanza Rai a proposito della decisione di rendere noto nei titoli di coda dei programmi i compensi dei conduttori e più in generale i costi della trasmissione, hanno spinto svariate testate giornalistiche e blog ad informare i lettori sui contratti più esosi sottoscritti dalle punte di diamante della scuderia di Viale Mazzini. Più con intenti da pettegolezzo a dire il vero, ma questa è un’altra storia.

Anche l’italiano poco accorto a così scoperto Fazio percepisce 2 milioni di euro per lavorare al suo valido “Che tempo che fa”. La Gabanelli deve invece accontentarsi di 150/180 mila euro annui lordi, per il coraggioso e onesto “Report”. Tra questi estremi si trovano, tra gli altri, 1,5 milione per la  Clerici; 1,3 milioni per Carlo Conti; 1,2 milioni per Vespa, 900 mila euro per la Ventura e 700 mila per Santoro.

Ciò che dovrebbe allarmare in questo sproloquio di numeri è la legittimazione dell’equazione tra ascolti e compensi. Il valore di un programma viene rimesso al  meter e dunque alla maggioranza  dei telespettatori. Che poi resta sempre da verificare la veridicità di Auditel rispetto proprio alla conta di questi telespettatori. Al momento abbiamo l’unica certezza che si tratta di un sistema che alimenta una tv vuota di idee, dove vince chi alza più la voce in una gara al ribasso. Per l’equazione di cui sopra dunque si dovrebbero ritoccare al rialzo i compensi di autori e conduttori che da dieci anni propinano lo stesso programma ispirato per di più a un’idea di altri (li chiamano format) e sbandierano dati di ascolto elaborati da  un sistema utile solo alle concessionarie di pubblicità come Sipra.

Da Baudo a Carlo Conti, dalla Clerici alla Ventura, da Vespa a Santoro. L’intero palinsesto della Rai è deciso dallo share. Fior di dirigenti a chinare il capo dinanzi a quei numeri, bandoliere senza idee che tagliano e spostano al volere di un decimale auditel. Fior di esperti lautamente compensati col discusso Canone estorto ai cittadini telespettatori. Professionisti della conduzione, per pagare i quali l’incompetente e insulsa dirigenza Rai depaupera risorse del pubblico servizio impedendo la produzione di prodotti di qualità. Programmi cui almeno una minoranza avrebbe comunque diritto.

L’Italia non è un Paese per comici.

13/06/2010

“Satura quidem tota nostra est”. Con queste parole Quintiliano consacrava il popolo romano come il vero ed unico padre di un genere letterario che ancora resiste nel tempo. Un genere certamente “di confine”, per palati esigenti, che trova seguaci nei teatri, nella letteratura, nell’arte figurativa. Ma non nella televisione. Da anni ormai, è stata estromessa dai palinsesti, bandendo lo schermo a personaggi che grazie ad essa hanno conquistato la fama. Ed uno che ne ha fatto le spese è certamente Daniele Luttazzi, al centro delle polemiche in questi giorni per la presunta accusa di plagio. Non entro nel merito della questione, lasciando il giudizio al mio lettore, ma nasce spontanea la riflessione sulla quasi totale assenza di un genere così sofisticato sulle reti italiane. “La satira – dice Luttazzi – è un punto di vista e un po’ di memoria”, che condivide aspetti dell’ironia, del sarcasmo e della comicità. Una battuta non vive se separata dal suo contesto e dalla tecnica utilizzata, attraverso uno stile che conduce lo spettatore ad un momentaneo straniamento, sospendendo per poco il giudizio morale. Ma dove lo troviamo questo spettatore nella televisione odierna? L’overdose di Bagaglino, l’abbuffata di pupe demenziali, l’appuntamento annuale con “La sai l’ultima?” hanno forse reso incapace il pubblico di comprendere la peculiarità di un genere come la satira? O forse è la televisione stessa ad aver omologato i gusti, propinando un umorismo che vive di tormentoni mordi e fuggi, adeguati ai ritmi dello sketch di un paio di minuti? Qualche anni fa Antonio Ricci, padre di “Striscia la notizia”, affermò che la comicità è un affare di nicchia, che vive bene all’interno di contenitori più ampi. Una comicità che dunque non rende in termini di ascolti. Più redditizio abituare il pubblico ad una comicità poco ricercata e di massa. Meglio un gregge indistinto, che una pecora nera nei prati della programmazione televisiva.

Calcio d’inizio (della fine!!!).

12/06/2010

Iniziano i mondiali di calcio 2010 e a vincere sarà ancora un volta  la Tv.  E’ notizia di ieri l’aumento della vendita di apparecchi, complice anche le promozioni delle grandi catene di distribuzione. E’ un fatto tutto italiano: se ti invitano ad un matrimonio corri a comprarti un abito nuovo. Di fronte al campionato  mondiale di calcio ti precipiti a procurarti un televisore di nuova generazione. Tanto il pagamento si può dilazionare e per sopportare la crisi economica niente di meglio di una dose di calcio quotidiana, con commenti pre e post partita, speciali con i soliti opinionisti a chiosare su arbitraggi, rigori sbagliati, goal rubati.  Uno scenario che suscita un certo smarrimento in uno che da sempre si nutre di calcio e coltiva una passionaccia per quella squadra toccata pure dalla genialità tecnica e comunicativa di un portoghese che ha vinto tutto.

Il calcio e tutto lo sport piegato alla televisione, all’Auditel!

In un vecchio racconto scritto da Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares si immaginava un futuro nel quale gli stadi marcissero nell’abbandono e le gare calcistiche fossero null’altro che rappresentazioni televisive animate da figuranti col risultato prestabilito dai responsabili della programmazione. Uno scenario estremo e caricaturale ma non cosi lontano dalla realtà di questi insipidi anni cui ci è capitato vivere. Le logiche televisive hanno definitivamente invaso il campo, imponendo allo sport, a tutti gli sport, regole di marketing in cambio di maggior spazio nei palinsesti.

Paradigmatico quanto accade all’automobilismo dove oramai si può vincere solo calcolando i litri di benzina e il sorpasso è un lusso trascurabile meglio, impraticabile, richiedendo costanza, tattica, applicazione. Qualità che necessitano di tempo, sono “diacroniche”, fanno storia. In obbedienza dei “tempi televisivi”  la pratica del sorpasso finisce per essere sollevata dalla gara e relegata ai box. Diventa un fatto tecnologico, un’azione perpetrata fuori dalla scena, uno spettacolo a se stante. E questo spiega perché la maggior parte della gente assiste solo alla partenza, temendo o sperando un incidente e finisce poi per consegnare il racconto della gara ad una pennichella pomeridiana.

Tutte le innovazioni dello sport odierno insistono nel senso della brevità e della frammentarietà così adatta all’inserimento del fatidico spot. Al tennis vorrebbero accorciare il punteggio, stuprando un meccanismo assieme democratico e feroce: perché nel tennis c’è sempre fino all’ultimo una possibilità ma devi essere spietato nel coglierla. La pallavolo l’hanno snaturata col rally-system: troppo noiose e poco adatte alle interruzioni pubblicitarie le battaglie di un quarto d’ora per guadagnare un punto.

Il fatto che lo sport “respiri” la cultura entro la quale si radica, è un’opinione ormai ampiamente consolidata. Ciò su cui vale la pena riflettere è la considerazione che all’interno del concetto stesso di sport troviamo culture assolutamente distanti come quelle centrate sul profitto e sulla logica del guadagno personale, difficilmente coniugabili con una dimensione dello sport che rimanda a un discorso di partecipazione sociale.

Illuminante una citazione di Eco: “…nelle riprese calcistiche appariva un pallone marrone, spesso invisibile, perché quello era il pallone vero con cui giocavano i calciatori. E’ solo dopo, che il pallone è diventato a scacchi bianchi e neri, e gli stadi si sono trasformati in muraglie di pubblicità. A quel punto i ruoli hanno cominciato ad invertirsi. La Tv non è più andata a riprendere un gioco che esisteva per conto proprio, era il gioco ad essere messo in scena per permettere alla televisione di mostrarlo”.

E’ indubbio, infatti, che sempre più la spettacolarità tenda ad essere lo strumento in grado di veicolare immagini e valori connessi alla modernità dell’industria d’intrattenimento, ai consumi di massa e al business tout court. Anche la decentralizzazione delle grandi competizioni sportive nei paesi in via di sviluppo, se diventa una necessità imposta dai numeri e dalla democrazia interna ai grandi organismi internazionali, non intacca però il monopolio economico detenuto dal mondo occidentale. Oggi le grandi multinazionali dello sport possono acconsentire di decentrare le manifestazioni grazie al ruolo primario che ha assunto il mezzo televisivo. I Mondiali possono svolgersi allora in Sud Africa;, a Tokyo, a New York o nel Tibet e raggiungere indifferentemente milioni di telespettatori in ogni parte del mondo.

La serialità dello sport è coerente con i ritmi e i cicli della programmazione televisiva; e quando non c’è sintonia la televisione è tiranna. “Quando le reti televisive scoprirono il surf – sceglie tra i tanti esempi possibili Christopher Lasch – pretesero che le gare avessero luogo in base ad un programma concordato in precedenza indipendentemente dalle condizioni atmosferiche”. Già alle Olimpiadi di Los Angeles la maratona, nonostante le proposte degli atleti, viene programmata nelle ore in cui maggiore è l’inquinamento atmosferico, per rispettare le richieste dell’ABC. Lo sport capisce e si adegua.

La televisizzazione ha quindi concretamente modificato la narrazione sportiva e la stessa rappresentazione collettiva di discipline costituitesi e sviluppatesi nel contesto della partecipazione fisica degli spettatori all’evento e nella cornice spazialmente e temporalmente delimitata dal campo di gara e dalla sua programmazione regolamentare. Persino il tradizionalista gioco del golf ha dovuto adattarsi alle nuove regole, inventando il medal play. Il calendario calcistico ma anche di altre specialità a grande resa televisiva, si è progressivamente infittito e dilatato a dismisura, sino a cancellare quasi del tutto la distinzione fra stagioni di gioco e di pausa. Tutto ciò ha anche sconvolto le dinamiche competitive in senso stretto. Dovendo affrontare stagioni interminabili, i club più ricchi si sono attrezzati con campagne acquisti che hanno prodotto una spietata selezione, privando il calcio e gli altri giochi di squadra della risorsa rappresentata dagli outsider. Gli sport a minore impatto spettacolare sono tutti più o meno alla ricerca di espedienti e trovate che consentano di elevare la loro commerciabilità o, quanto meno, di non soccombere alle leggi caudine dell’audience. In alcuni casi, le trasformazioni hanno interessato più la costituzione materiale delle discipline che non le loro regole formali. L’“effetto 50 chilometri” nel ciclismo su strada – cioè l’accendersi della competizione nelle ultime fasi della gara, a uso e consumo delle riprese televisive – ha rappresentato uno stravolgimento delle tattiche e delle stesse gerarchie di una specialità che, come poche altre ha alimentato e coltivato l’immaginario sportivo popolare.

Tutto è andato perduto nei tempi televisivi. E’ tempo di FIFA.

Una risata ci seppellirà

01/06/2010

E’ di qualche giorno fa la bella intervista di Giuseppe Videtti per la Repubblica a Roger Waters narratore con e per i Pink Floyd di “visioni” che hanno attraversato intere generazioni senza risentirne. Un miracolo possibile solo quando ci si muove nell rock progressive di cui i Pink Floyd restano raffinati e inarrivabili maestri. L’inclinazione al concept non è solo musicale, ma anche stile di vita in Waters che non ha mai ceduto alle lusinghe dello show biz per coltivare la sua arte , consapevole che al giorno d’oggi chi ha una storia come al sua “non scrive The wall, ma va a raccontarla nei reality show, in cerca di quindici minuti di celebrità. Si diventa famosi senza saper far nulla, non c’è più bisogno di saper recitare, cantare o che so io. Al contrario, è la totale mancanza d’immaginazione a creare il personaggio. La tv… il vero oppio dei popoli. Foraggia consumismo e propaganda. Crea dipendenza”.

Nell’era delle audience diffuse l’idea di eterodirezione è rispettabile e può essere coltivata solo dall’autore di Wish you were here. A noi tocca più prosaicamente riflettere sul livellamento dell’offerta televisiva attorno ad una confusa idea di intrattenimento che ha tracimato e inquinato ogni comparto della programmazione. Si chiama “infontainment” e viene variamente declinato fino alle più mortificanti derive di certi talk show che su a temi anche importanti chiamano a blatterare il politico di turno con la show girl in disarmo e la modella dalle belle speranze.

Il minimo sforzo produttivo e creativo per andare incontro alle logiche dello share.

In questa  inerzia  trovano terreno facile i cosiddetti reality, macchine per la riproduzione di una televisione senza qualità, priva di volontà, di obiettivi se non quella di assicurare la sua stessa sopravvivenza. Folle di giovani si ammassano ai casting nella speranza di entrare nella casa televisiva, gli stessi ragazzi e ragazze che vedono nelle mie aule, tutti uguali nel modo di vestire, agire, parlare ai personaggi che la televisione ha creato per loro.

Con i reality la tv morente ha trovato il modo meno costoso per autoalimentarsi. Una volta eliminati dal gioco i vari palestrati ignoranti, contesse spiaggiate come balene agonizzanti, fanciulle sotto i venti anni già revisionate nelle parti che contano dal chirurgo plastico vengono riproposti in ogni dove televisivo in un mescolamento di codici e personaggi cui non sfuggono nemmeno i pochi programmi di informazione rimasti. Della famigerata triade “divertire” ,“informare”, “educare”, è rimasto sola la prima e non risparmia nemmeno i principi della scienza che nelle logiche attuali diventa “gaia” grazie all’azione (inde)fessa di un Trio Medusa, convinto che basta indossare un camice bianco e avere l’etichetta di “comici” per essere “divulgativi” e “dissacranti” al tempo stesso.

Anche grazie a loro una risata ci seppellirà e il riferimento è naturalmente al terzo episodio della saga Scary Movie firmato da David Zucker di sicuro attento lettore di Bakunin.

Bye Bye Lost

28/05/2010

E’ appena terminata una storia.

Una storia che mi ha veramente colpito e affascinato.

Non credevo fosse possibile, ma mi sono reso conto che arrivano dei momenti nella vita in cui tutti dobbiamo ricrederci.

Questa storia ve la devo proprio raccontare.

Tutto comincia con un viaggio. Una lunga camminata per rincorrere il proprio destino, che poi diventa una guerra per non perdere quello per cui si è nati. Un gruppo di uomini apparentemente normali, che pian piano capiscono di essere speciali. Alla base di tutto due fratelli, che per invidia o divergenza scatenano una lotta millenaria che si trascina fino al momento in cui un solo eroe riuscirà ad assumersi la responsabilità di restare vivo. Nel mezzo una componente divina che tutto assurge, e il perenne conflitto tra la parte Apollinea e quella Dionisiaca che risiedono in ognuno di noi.

Si è una storia che tutti voi conoscete e la maggior parte di voi non ha capito . Vittime di quella “cultura del dato” vi siete convinti che fosse semplicemente caduto un aereo, che delle persone fossero costrette a stare su un’isola incomprensibile, che nessuno riuscisse a salvarli, che orsi polari e mostri di fumo li perseguitassero, che uno strano elettromagnetismo facesse spostare l’asse del tempo.

Dopo tutto è normale che una pletora di sudditi riducesse  perfino Lost a una mera questione di” conta” dei telespettatori, consumandolo nel proprio convulso e  pantagruelico banchetto mediatico. Qualcuno ha già avvisato: il futuro dell’intrattenimento è sempre meno ratings e sempre più engagement e dunque a che serve Auditel?

Adesso che il sipario è calato vi spiego che cos’è Lost.

È un po’ Iliade quando Sawyer-Achille è capace di amare e piangere.

È un po’ Odissea quando Jack-Ulisse sa trovare il modo di salvare il suo popolo.

È un po’ Antico Testamento quando Jackob-Caino uccide suo fratello che poi diventa a sua volta Caino di se stesso.

Lost è fuga e riconciliazione. È il bene e il male.

Lost è l’ultimo capolavoro della letteratura Americana.

Leggendo Omero, Maffesoli e La Bibbia io ho saputo il finale un paio di anni fa.

La Rabbia di Pasolini è anche la mia…

24/05/2010

Lo ammetto: non sono mai stato un grande estimatore del cinema italiano. Privo di qualsiasi capacità immaginifica, di forza morale, perennemente piegato su se stesso. Fissa sulla pellicola  il proprio ombelico pensando che sia quello del mondo, strutturalmente inadatto a pensare ad un cinema come  sistema reticolare di variazioni narrative ed espressive.

Eppure ieri sera, davanti alla scelta del  film da guardare insieme a Lara per sfuggire alla programmazione televisiva, rovistando tra i DVD è saltato fuori La rabbia, pellicola del 1963 firmata da Giovannino  Guareschi e Pier Paolo  Pasolini. E “l’eterna crisi latente” è riesplosa, riportando alla mente Histoire du soldat, testo teatrale scritto 10 anni dopo da Pasolini insieme a Sergio Citti e Giulio Paradisi, dichiaratamente derivato dall’omonimo racconto di Charles-Ferdinand Ramuz musicato da Igor Stravinski nel 1919.

Mefistofelica profezia racconta la storia  di una soldato che lungo la sua marcia per  Roma incontra il diavolo in persona.  Questi lo trasforma in una  star della tv, noto ai telespettatori con il nome di Sant’ Analfabeta, popolare e amato al punto da rischiare di essere clonato. Sant’Analfabeta è santo perché capace di miracoli. Salva in diretta televisiva la vita di un operaio frenando la caduta da un’impalcatura. I telespettatori restano estasiati e  pure Sant’Analfabeta si inebria. Fino al primo “blocco pubblicitario”: lo spot di una società di assicurazioni sulla vita. E’ il disvelamento per il soldato di essere vittima del potere massmediologico, che gli ha rubato la purezza fino al punto di renderlo di non essere piu’ neanche capace di suonare il suo violino.

In questo scenario Pasolini ipotizzava un credibile metodo  per calcolare/rappresentare  l’ascolto e il gradimento dei telespettatori (allora ancora non si parlava di pubblici). L’indice d’Ascolto come la merda di una cloaca direttamente collegata  alle trasmissioni televisive. In relazione all’interesse/presenza degli spettatori nei confronti del  programma, il  livello del liquido fognario saliva o scendeva.

Quell’odioso innominabile meccanismo che oggi domina la televisione causando l’impoverimento culturale di quella, dei programmi televisivi e di conseguenza della società, altro non è che merda. Prodotto ultimo del consumo che lo stesso consumo stimola.

Pasolini, incompreso, lo vedeva nitidamente già nel 1970 ed oggi io mi trovo a dire: Non ci sto!   Non ci sto ad essere considerato un numero, indicato dai numeri, diretto dai numeri, rappresentato dai numeri o da parte di un numero, compreso tra 0 e 100. Non ci sto ad accettare supinamente l’imperversante dominio di questo raggiro sottile chiamato Auditel.

Nella società dove gli interessi dei tanti tendono a cancellare l’importanza del singolo individuo, delle di questo esigenze e del rispetto che merita egli e il suo proprio sviluppo con la soddisfazione di interessi vivaddio particolari.

L’Auditel è un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza, una convenzione a cui almeno gli studiosi seri dei media devono sottrarsi.

Sto qui a difendere la mia individualità e quella di ciascuno. Contro la religione dei numeri, la statistica, secondo cui due ricchi obesi compensano due deceduti per fame (e forse anche quattro se una curva funzionale può dimostrare una qualsivoglia equivalenza)

Anche per questo mi permetto di dire che la rabbia di Pasolini è la mia.